Ennio

Arianna 
 
Psicologie inconsuete
 
 
 
di Ennio Martignago
 
n. 0.3 Agosto 1997 
           
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La metafisica di un orgasmo

È la consapevolezza della fine che spinge a porci quesiti fondamentali. Se la fine non fosse dietro l'angolo non lo faremmo mai. Molti uomini hanno lasciato frasi illuminanti su interrogativi come "Chi sono", "Da dove vengo", "Dove vado", a volte talmente vere da risultare banali. Quante volte invece veniamo illuminati da un insight improvviso e scopriamo che il reale senso di quel pensiero è diverso: la frase è la stessa, ma ora la cogliamo in una sfumatura che le conferisce uno spessore inedito e folgorante di verità. Si trattava solo di spostare una piccola enfasi, un minimo accento, impercettibile a chi non abbia attraversato quell'esperienza. A volte un autore esprime un proprio pensiero in una frase. A chi ascolta, poi, quella frase può passare ignorata. Per altri invece ha un significato superiore a quello che l'autore gli attribuiva, in quanto entra in risonanza con una esperienza personale e riesce a darle forma esprimendola in un pensiero in una rappresentazione finita.

Nel film Il té nel deserto è lo scrittore stesso che chiude con una frase quasi ignorata dalla maggior parte degli spettatori e che non sono neppure riuscito a trovare nel testo originario. Il senso che vi ho colto è che nella vita siamo convinti di aver vissuto migliaia di volte la stessa esperienza, poi, invece, ben poche esperienze hanno avuto spazio in noi tale da farcele portare dentro: la luna è stata lì a splendere quasi tutte le notti e noi siamo convinti di averla vista sempre, mentre questo è avvenuto poche volte e sono invece pochissime quelle in cui l'abbiamo guardata, l'abbiamo colta di per sé, lasciandoci pervadere da quella semplice esperienza. Siamo una collazione di pochi frammenti di reale, come gioielli di presente scompaginati nella nostra anima, privi di un filo conduttore.

Salvatores, in Nirvana fa precisare alla figura femminile, in risposta alla domanda che le pone il protagonista, dopo averle fatto installare il chip con la memoria della ex-amata, se lei lo ama ancora: "Ma chi? La mia persona o la mia memoria?". Lui risponde: "La tua memoria", svelando d'un colpo l'estraneità che può esistere fra la persona e la memoria. E non solo fra la propria e quella dell'altro, ma anche fra me e la mia memoria. Questa può apparire come un ospite indesiderato della mia esistenza attuale. La stessa protagonista, ad un certo punto, aggiunge sempre sul tema: "Sei il primo con cui faccio l'amore. ...almeno il primo che mi ricordi, perché mi dimentico tutto". Anche qui denota la scelta di liberarsi da quell'intruso che è la propria memoria intesa come presenza invasiva di un "altro" che non consentirebbe di vivere una vita propria, di vivere intensamente il presente per come ci appare, gravido di tutte le sue emozioni, come momento autentico e non come clonazione di similitudini.

Fra memoria e pensiero vi è uno iato incolmabile. La memoria nasce dalla superstizione che la vita appartenga ad una forma che sono io in questo momento e che si vorrebbe essere lo stesso "io" di un anno fa. Il pensiero non appartiene a chi lo esprime: è qualcosa che esiste di per sé e viene espresso da me o da qualsiasi forma vivente in grado di riceverlo e di dare ad esso una forma comunicabile. Le parole con cui viene espresso il pensiero possono essere mie-ora. Ho un buon pensiero quanto più sono in sintonia con esso e quanto più lucidamente riesco a con-formarlo, a esprimerlo. Quello che vorrei riuscire a percepire è la dimensione in cui vivono i pensieri, il loro mondo. Vorrei anche essere più consapevole di quale sia la parte di me che partecipa dei pensieri, visto che non sono io nella mia totalità, ma una parte di me, una funzione, o che altro. Già, ma che cos'è questo altro. Per ora lo chiamerò il Testimone che mi abita. Ecco dunque che fra qualcosa di artificiale e di inautentico che chiamo memoria (la ricostruzione attuale di un accaduto che mi ha attraversato in un dato momento) e il pensiero (come accadente, come evento in sé assoluto e in me relativo) non può esserci continuità.

Nell'entrare nella materia la coscienza sperimenta tutti i suoi limiti e con essi sperimenta sentimenti, gioie, sofferenze... Anche se forse le emozioni non appartengono alla coscienza. La materia è testimone delle sensazioni che le vengono offerte dall'albergare in essa della coscienza. La materia realizza un connubio con la coscienza, quello stato che Jung e prima di lui gli alchimisti chiamavano nozze alchemiche.

Il maschile e il femminile sono l'espressione formale delle attrazioni e delle repulsioni di questa coppia archetipica di materia e coscienza. Parlo di maschile e di femminile e non di uomo e di donna, perché nel soggetto (maschile e femminile) coabitano in relazione dialettica materia e forma. Quando l'uomo si identifica nel maschile e la donna nel femminile, essi accettano un ruolo attraverso il quale le due istanze recitano, esprimono, danno forma animata a questa dinamica. E il mondo trae origine dall'espressione di questa dualità: un'espressione generatrice di forme, di senso, di storia (e quindi anche di "memoria").

Il femminile (e quindi nella sua rappresentazione fisica statica, la donna) è sempre stato inteso come l'elemento recettivo, che ospita in sé e viene animato dal penetrante, dall'attivo, inteso come parte maschile. Per questo la silitudine che viene offerta è quella fra la materia femminile che ospita la coscienza (altrove "spirito"), maschile.

L'io (dell'uomo e della donna) come parte storica e che probabilmente supera la nascita e la morte è quella particolare capacità di governare queste due forze dialettiche in una forma armonica e generatrice che è la persona. L'io è l'algoritmo che organizza queste istanze assolute e a sé stanti in una forma. La materia è un continuum; la coscienza è un continuum. In un istante si congiungono in un amplesso e poi vorrebbero rifuggirne immediatamente. Qui l'io le imbriglia: le obbliga a convivere in una configurazione e trae l'energia per vivere e per generare dinamica, movimento, storia, fatti, proprio dall'attrito fra le due parti. È la forza che attrae la coscienza alla materia, la stessa che repelle l'una dall'altra, a conferire energia alla forma che altrimenti non esisterebbe. Un io più pieno, meglio riuscito è quello che meglio organizza quest'energia, che trasforma queste dinamiche in bellezza (attributo principale della forma) esteriore e interiore o, se preferite grazia e saggezza. Questo Io è forse quello che chiamo il Testimone.

Il Testimone è la consapevolezza che mi abita, al di là del mio aspetto e dalla rappresentazione storica di me, "Ennio Martignago".

L'io non trae origine, né dalla coscienza, né dalla materia, ma dal reiterarsi (anche attraverso le vite) dell'esperienza: il fare determina l'organizzare. Una sorta di personalità che nasce dal ripetersi e dal perfezionarsi dell'autorganizzazione delle esperienze, in quanto istanti del governo delle dinamiche attrattive e repulsive.

Una domanda che non cessiamo di porci e a cui non abbiamo saputo dare che delle risposte monche, è il perché della ricerca dell'altro complementare, che si esprime al meglio nel fenomeno paradossale del coito e dell'orgasmo. Intendere il desiderio dell'altro complementare del corpo maschile verso quello femminile, e viceversa, non può essere spiegato soltanto dall'istinto alla procreazione. Questo non è certo estraneo, ma è piuttosto la forma suprema della generazione e del perpetuarsi di una continuità di movimento e di esperienza dell'io. Nel procreare il testimone continua ad organizzare e ad organizzarsi. Nel far questo ogni io realizza la permanenza dell'idea dell'io. O meglio, il mio io, è una parte della sovranità dell'Io. Questo Io è dunque alla fine un'istanza assoluta, come la coscienza o come la materia, ma di una natura diversa dall'uno e dall'altra. Ma sono anche "io" quell'Io. Non esiste aporia fra la condizione assoluta e la sua manifestazione soggettiva. Non c'è spersonalizzazione né proprietà, ma consustanzialità del privato e dell'assoluto. Non la materia, né la coscienza, ma l'io è l'unica istanza universale in cui possa trovare ragione d'esistere il mio io individuale.

Dallo yoga della Kundalini agli esoteristi, fino alla psicanalisi non sono pochi ad aver visto nell'accoppiamento dei sessi, nell'attrazione sessuale e nell'orgasmo un "motore energetico", o comunque un momento significativo a sé nella spinta alla crescita sociale oltre che biologica. Ma perché, dal momento che non crediamo che possa essere soltanto la procreazione la ragione ultima?

Nel cercarsi, nell'incontrarsi, nell'atto sessuale si celebra il rito delle nozze cosmiche che precedono la nascita, quando la coscienza penetra nella materia ricreando un nuovo epicentro organizzativo, un nuovo ganglio dell'Io, una nuova manifestazione microcosmica, un tassello del puzzle dell'Intero, di quello che alcuni chiamano Dio. Viviamo in uno stato di nostalgia ben precedente al trauma della nascita, individuabile grosso modo con il processo del concepimento. Nostalgici dell'origine, cerchiamo in continuazione di ritornare ad uno stato fusionale, simulando nel rito dell'accoppiamento l'atto totale dell'incontro tra coscienza e materia, quella collisione che originò la nostra esistenza e nell'orgasmo tendiamo a "perdere i sensi", ad annullare l'io come dovette avvenire allora. Un altro io (un figlio, ma anche l'atto dell'orgasmo stesso) non può idealmente realizzarsi se non in un temporaneo annullamento degli io particolari della coppia. Nella condizione originaria nessuna delle funzioni sensoriali tradizionali (pensiero compreso) è attiva. L'unica forma di percezione e pensiero è data da ciò che esotericamente si intende con il termine di sentire. Un sentire che non si coniuga con un soggetto: non si ha a che fare con un io che sente qualche cosa, quanto di "un sentire che sente", un sentire assoluto che ci abita, che è allo stesso tempo me stesso, nel momento in cui non esite un me stesso. Ci accoppiamo, godiamo, proviamo un orgasmo in tutte le sue forme, estasti e impeto creativo compresi, per ritornare a sentire e da questo sentire tendiamo a generare un terzo (il piacere, la fusione, l'insight, il figlio, l'opera d'arte).

L'energia sessuale è legata proprio alla rievocazione nel rito (come in un rito woodoo o in una Messa) dell'energia primordiale della fusione. La coppia attinge a quel pozzo di energia che continua ad esistere fino a che c'è vita e che continua ad erogare energia nel rito. Il passaggio dalla materia all'energia e viceversa, noto dallo studio della termodinamica fino alla fusione nucleare, può essere visto come la riproduzione dello stesso processo del sole, la stella che, modificando il proprio stato, genera in continuazione l'energia. Il rito è una tecnica ed una tecnica è un rito. L'atto sessuale è una tecnica, proprio come la fusione nucleare, di cui abbiamo dimenticato la genesi (non avendola mai "pensata" o progettata).

Nel compiere l'atto sessuale, prima ancora di generare l'altro fuori di noi, rigeneriamo l'altro che è in noi, ritualizzando il concepimento primigenio, le nozze cosmiche della materia con l'energia che ha creato il nostro io organizzatore. Nasce anche un io di coppia, molto meno stabile. Nell'atto sessuale si genera sempre il terzo. Molto prima del concepimento di una nuova vita, ogni atto sessuale concepisce una energia e questa assume una forma. Quasi mai percepiamo questa "forma". La intuiamo come compimento dell'atto. L'orgasmo è già il figlio.

Perché non percepiamo questo terzo, questo nuovo/vecchio io che si origina dall'orgasmo? Perché l'abbiamo sempre visto come qualcos'altro. Come atto procreativo e prima ancora come liberazione di una tensione. Vedendolo in questo modo non facciamo altro che dar luogo ad uno dei tanti incontri e fughe così ricorrenti del penetrante con il recettivo. Non fissiamo un io in questo atto. Lasciamo sfuggire ogni volta la parte nobile del rito, senza imbrigliarne l'energia. È cosme se creassimo una reazione atomica per poi dimenticarcene, senza farci nulla. La potenza di questa energia si indirizza nelle direzioni più casuali. Non va perduta, ma forse finisce in luoghi dove non serve o dove realizza fenomeni controproducenti. Che importa!

Se una accentuazione predominante del polo penetrante (maschile) su quello recettivo equivale ad un atto senza spazio, gesto senza forma, energia senza luogo, il prevalere del recettivo (femminile) sul penetrante porta alla reificazione senza soggetto, alla materia senza consapevolezza, a fisicità senza finalismo ad una continua assunzione senza soddisfacimento, ad una mancanza di valore del significato e ad una "passivizzazione" del destino. Anche se negli ultimi tempi è quest'ultima polarità che si sta accentuando, a segnare uno strapotere della materia sulla coscienza, c'è da aggiungere che, quanto più manca un sufficiente equilibrio fra le due polarità, ognuna delle propensioni viaggia di per sé, indifferente delle ragioni dell'altra, seguendo esclusivamente le proprie logiche, non essendo mediata dal potere organizzante dell'io. Allora si assiste ad un normale materialismo e alla reificazione formale dei soggetti a prescindere dalle identità (l'enfasi sui corpi e sulle misure a scapito del pensiero e della creatività, ne sono tratti distintivi) a cui fa da contraltare un deviante eccesso dell'atto fine a se stesso, il gesto sconsiderato, l'acting out, la violenza, il fare senza progetto, l'agire compulsivo inconsapevole, la violenza sessuale e la strumentalizzazione dell'altro che si consuma nell'uso stesso (una vita "usa e getta).

L'enfasi posta in questi anni sulla bellezza rivela anche qui un'interpretazione materialistica di questa qualità. Non si tratta certo di un tratto irrilevante. Tutt'altro: rappresenta il cardine stesso dell'attrazione e quindi è l'elemento che più indirizza l'essere al desiderio della ricongiunzione. La bellezza ci riporta alla memoria lo stato di coscienza delle origini. Le forme belle ci ricordano l'estetica dell'atto originario; i tratti del penetrante (prossimi alla linearità) e quelli del recettivo (tendenti alla sinusoidalità) riportano alla mente i movimenti che le energie compino nel concepimento, nella realizzazione dell'unione, un po' come se ricordassero i gesti dell'amplesso. Ma nel mondo delle forme non esiste la bellezza, quanto piuttosto le bellezze. Ogni io foggia la propria dialettica fra penetrante e recettivo e nel fare questo costruisce l'estetica della propria organizzazione: l'organizzazione della polarità materiale e quella della coscienza. La prima si esprime nelle forme e la seconda nei gesti. Un'organizzazione bella è quella che armonizza bene e originalmente la forma fisica con il gesto. L'io viene attratto dalle bellezze in ragione di quanto esse sono maggiormente complementari al proprio equilibrio estetico. Ne viene attratto perché la bellezza dell'altro riduce al minimo le resistenze dell'io ed il nostro sentire si approssima all'immediatezza tipica dell'unione. Quando entriamo in contatto con un nostro "bello" siamo già in qualche modo in uno stato simile all'estasi e riconosciamo empaticamente il campo di attrazione del ricordo dell'unione. Al contrario, quello che troviamo brutto, agisce respingendoci, polarizzando le forze di separazione e quelle dell'io per sé. In quanto tale, il brutto non è negativo, anzi, ha una sua utilità perché ci spinge a divenire autonomi, ad esempio favorisce la funzione critica, portandoci ad agire nel mondo come individui separati. Per questa stessa ragione, l'esperienza del brutto porta con sé un sentimento larvato di solitudine e di pena. L'io è in grado di usare il brutto ed il bello anche in assenza dell'altro, ad esempio con l'immagine dell'altro o semplicemente con la dialettica delle forme che si ritrova nelle forme artistiche, ma anche con il solo ricorso alle facoltà dell'immaginario. Si può arrivare a ritenere che un giorno riusciremo a realizzare l'esperienza per cui ora occorre l'accoppiamento con le sole capacità che un io perfezionato avrà di ricostruire all'interno dei propri confini la dialettica formale di penetrante e recettivo, vivendo entrambe le polarità o, al contrario, riuscendo a separarsene quel tanto che basta per non essere troppo dentro nessuna delle due. Quando riuscirà a realizzare questo in modo completo, l'essere umano sarà alle porte di un esistenza completamente diversa. Si realizzeranno le profezie di Nietzsche e l' "uomo" non esisterà più. Per ora stiamo invece attraversando un periodo di segno opposto, ma è possibile che, se riusciremo a riconoscere i nostri errori attuali, si possa fare un passo avanti rispetto al meccanicismo che domina questo sistema di rappresentazione che passa attraverso l'unione dei corpi, per ora tanto irrinunciabile. E non sto parlando di pura e semplice astinenza, al contrario, di modelli più "evoluti" di sessualità. D'altronde, non dico una cosa stravagante nell'affermare che l'erotismo attuale ci lascia in ultimo insoddisfatti, ed è proprio per questo che cerchiamo nevroticamente sempre più rapporti sessuali e sempre più "diversi".

Paradossalmente in questi anni assistiamo ad un'ideologia del sesso come fatto casuale, neghiamo la sacralità dell'atto e generiamo un'energia incontrollata che, invece di rigenerare l'io, disperde quello che viene messo in gioco. Nell'accoppiarsi l'uomo e la donna mettono in palio parte del proprio io e lo fanno per rigenerarlo, riassumendolo rinforzato e ringiovanito dal rito. Ma se il rito non viene utilizzato, se non si è consapevoli dell'atto e non si riassorbe l'io investito, rinnovato, si perde solo quello che si è investito. Si perde, cioé, parte del nostro potere organizzante e ci si abbandona alla dialettica naturale. Questo si è sempre fatto, ma oggi ne stiamo facendo addirittura un credo. In questo stiamo originando il diabolico, creiamo un rito che favorisce l'entropia dell'Io.

Secondo una psicosomatica esoterica ed un certo tipo di psicosomatica moderna, proprio il sangue è il veicolo corporeo dell'io. L'HIV o AIDS è la malattia della disorganizzazione. Le difese si indeboliscono perché manca un fattore di organizzazione connesso all'io. E non è un caso che l'HIV si trasmetta elettivamente proprio nell'atto sessuale e proprio attraverso il sangue. Nello stesso modo lo sviluppo di malattie di origine autoimmunitaria sta ad indicare una perversione nell'organizzazione dell'io. Anche queste forme di patologie hanno proprio nel sangue il luogo elettivo di "elaborazione" e di "espressione". Due mali che nascono dalla stessa dinamica: una cancellazione del terzo nella rievocazione delle energie originarie. E il bello è che siamo proprio noi noi a volere tutto ciò e a difenderne l'ideologia, tramite un credo della casualità.

La manifestazione della vita scaturisce da questo divenire per cui degli io devono in continuazione ritualizzare le origini, facendo incontrare nuovamente una rappresentazione magica della materia con la coscienza, generando con questo un terzo. Anche la sublimazione dell'orgasmo, come la chiamava Freud, genera il terzo, inteso come prodotto culturale. Come un figlio ci uccide quando viene concepito, e poi man mano che cresce, assumendo in sé il nostro atto, assorbendo le energie regressive dell'orgasmo, la forza impressa nel tentativo di recuperare le origini e di rigenerare l'io, anche la cultura ci uccide assumendo in sé il nostro sacrificio della soggettività.

Dopo l'amore l'uomo e la donna sono tristi. Sono tristi perché hanno idealmente annullato i propri io per dare energia al terzo. Ma sono tristi anche perché sono rigettati nella separazione: dopo aver sperimentato la collisione violenta e onnipotente degli stati assoluti della materia e della coscienza che annulla la solitudine nell'immediatezza della mancanza di un io formante, delimitante, ripiombiamo in uno stato artificiale dove opera la l'attività di mediazione del'io (della storia, della coscienza della storicità e della temporalità). Sentiamo in noi la nostalgia della nostra materialità nei confronti dello stato originario di materia assoluta e la nostalgia della nostra coscienza nei confronti dello stato originario di coscienza assoluta. La rabbia di entrambi nei confronti del giogo rappresentato da una forma vivente artificiale. La persona non è reale, solo gli stati originari (materia, coscienza ed io) lo sono. Per questo ognuno di noi non è permanente: siamo solo una successione di stati a cui abbiamo imposto una convenzionale continuità. L'entropia di questo connubio che segna le trasformazioni della persona (l'apparire della forma che chiamiamo "me stesso") sembra avere uno statuto di realtà, ma non è che la descrizione di una serie di trasformazioni di un'algoritmo generato dall'atto del concepimento e chiuso con le sue progressive dissoluzioni.

Non è un caso che la coppia, intesa come metafora della coppia primigenia, è un giogo difficile da mantenere. Non c'è giorno in cui non desideremmo separarci da questa costrizione, come non passa attimo in cui la materia non desideri separarsi dalla coscienza e quest'ultima dalla prima. Il legame delle due è promiscuo, forzato, proprio come la coppia è una condizione folle, un'unità paradossale, illogica, impossibile. Solo l'hybris umana usa la volontà per consolidare questo giogo, facendo il possibile per confermare la condizione umana. Ci si accoppia solo per potere reiterare con maggiore regolarità ed in ogni gesto del quotidiano il rito dell'accoppiamento originario, per ridare forza all'io e per superare la nostalgia della separazione. La coppia è una forma di religione (etimologicamente re-ligo, reiterazione di un legame) e, in quanto tale, prospera nelle sue istituzioni: in chiesa come nel rapporto stabile, nella famiglia.

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