Tecnorealismo: tra luddismo e messianismo
di Ennio Martignago

Che cos'è il Tecnorealismo

Il Tecnorealismo nasce come una corrente di pensiero generata dall'ambiente intellettuale statunitense, tesa a tracciare la "giusta linea" di demarcazione fra quanti oggi demonizzano le Nuove Tecnologie, in quanto inizio della fine dell'umanità, e quanti invece le interpretano come il mezzo stesso per raggiungere l'onnipotenza globale e democratica.

Di fatto questa tendenza s'identifica con un manifesto che ha avuto una certa risonanza in rete e sui magazine statunitensi.

Vediamo innanzi tutto come recita il manifesto del tecnorealismo:

  1. Le Tecnologie non sono neutrali
  2. Internet è una rivoluzione, ma non un'Utopia
  3. I governi hanno un importante ruolo da giocare
  4. L'informazione non è conoscenza
  5. Collegare in rete le scuole non vuol dire risolvere i loro problemi
  6. l'informazione dev'essere tutelata (garantendo diritti d'autore e prevenendo la disinformazione)
  7. Le risorse pubbliche delle telecomunicazioni devono essere a disposizione di tutti e il loro affitto adeguatamente rimborsato
  8. La conoscenza del funzionamento e dei segreti delle N.T. dev'essere garantita a tutti e non a beneficio di pochi iniziati.

Se molte sono state le adesioni al decalogo, ancor di più sono state le critiche e queste sono giunte soprattutto dagli esponenti della tecnocultura di tendenza, quella che in generale scrive, legge o s'identifica con Wired, la rivista della west coast nota per la rapidità del successo riscontrato, frutto di un'innovativa veste grafica, unita ad un linguaggio e a dei temi che parlano agli uomini dei computer, del design, ai cosiddetti nerds insomma, i neo-yuppies, figli delle nuove tecnologie. Fra questi e i loro padri si è creato un autentico gap generazionale che assume come simbolo e feticcio proprio il computer ed il rapporto con l'elettronica in genere.

Figli della globalizzazione, i nerds sanno che la borsa valori si comanda meglio e più facilmente da una postazione telematica remota che dai botteghini degli scambi, nello stesso modo in cui hanno capito che questa società in cui si vive la realtà la fanno sempre più i media e sempre meno la politica o la cultura. Il loro paradigma di riferimento è "il Nuovo" e non importa sapere quale Nuovo.

Quelli che contestano i loro valori invece si accaniscono contro il loro idolo, lo strumento che identificano come la causa di questa "follia" mondiale: il computer e le nuove tecnologie in genere, facendo finta di non rendersi conto che neppure loro si possono ispirare ad un modello naturale di ritorno ai valori originari e che la cosiddetta tecnocultura è a sua volta figlia della matrice economica occidentale capitalista industriale dominata dalle leggi del mercato e dallo strapotere dei mass media.

Ciononostante il dissidio sembra insanabile. Per questo, tanto gli uni che gli altri accusano i tecnorealisti di esprimere un opportunismo ozioso e retorico. Che la virtù stia nel mezzo lo sanno tutti, ma che questo mezzo sia facilmente identificabile e praticabile, questo è tutto da dimostrare e non sono di certo riusciti a farlo neppure i tecnorealisti.

Ma allora, è veramente così inutile e parassitario parlare di tecnorealismo?

Il rapporto fra l'uomo e la tecnica

Da quando è nata la teoria dell'informazione ci si è posti il problema di superare l'antica aporia fra techné e phisys. Dall'alveo stesso della filosofia sono nate discipline, come la semiotica, la sistemica o la psicologia della comunicazione, che si sono concentrate a studiare quali siano le categorie e i metodi atti a comprendere un uomo che non è più, e forse non è mai stato così indipendente dalla tecnica. La cultura stessa, alla fine, è sempre stata innanzi tutto un apparato tecnico. Qualche tempo fa Gargani sosteneva che il pensiero umano altro non è se non una paura, quella dell'ignoto esistenziale, che si è data un metodo.

l'uomo si riconosce e s'identifica con le sue tecniche. Il feticcio religioso come pure gli strumenti adottati dagli stregoni per divinare sono frutto delle tecnologie e rappresentano a loro volta delle paleo-tecnologie della conoscenza. I concetti scientifici sono originati dagli strumenti di misura o d'indagine che da ogni scienza vengono adottati. La conoscenza stessa dei fondamenti scientifici contemporanei, come la fisica atomica, non è altro che il prodotto del connubio di un modello rappresentazione e dei rilevamenti originati dagli strumenti tecnologici adottati. La terra è rotonda sostanzialmente perché è il cannocchiale a farcela vedere tale e Spencer Brown esprime sinteticamente quest'idea dicendo che l'universo è in espansione in ragione del potenziamento dei nostri telescopi.

Ecco dunque che gli stessi supporti culturali basati sulle nuove tecnologie, come l'ipertesto o Internet non rappresentano affatto l'irruzione della tecnica nel mondo della cultura naturale. I conservatori vedono nel libro il rappresentante dei buoni e sani vecchi fondamenti della cultura, spesso dimenticandosi quanta tecnologia sia insita in questo supporto. Il solo passaggio fra una cultura orale ed una scritta ha rappresentato una rivoluzione di gran lunga superiore a quella dell'elettronica, al punto che gli antichi filosofi riservavano al rapporto iniziatico diretto il "vero" insegnamento di cui gli scritti rappresentavano solo la vulgata, la divulgazione per il popolino, per l'appunto. Tuttavia, nell'Occidente devastato dal crollo dell'Impero Romano, solo l'instancabile lavoro degli amanuensi ha fatto sì che non tutte le conoscenze del passato andassero perse. Seppure di portata inferiore al passaggio dalla cultura orale a quella scritta, la nascita della stampa a caratteri mobili ha segnato un cambiamento comunque più rivoluzionario di quello del computer. Tuttavia, proprio come con la nascita della scrittura, la tecnica era inconsapevole del destino che avrebbe avuto la creatura che stava prendendo vita. Non fu infatti Guttemberg a comprendere e a determinare i fasti della sua invenzione, quanto altri, primo fra tutti Mannunzio, che coniugarono la tecnica con la cultura, dando vita alla prima forma d'editoria e quindi ai primi veri e propri media tecnologici. Nello stesso modo in cui un tipografo dell'epoca era più teso a mostrare "come funzionavano i suoi strumenti piuttosto che concentrarsi sui prodotti, il tecnico d'oggi raramente conosce il genere d'oggetti che vengono prodotti con l'informatica e pensa che la conoscenza dei computer si esprima con l'esplicitazione degli oggetti che stanno dentro la scatola e le loro regole. La seconda, ma soprattutto l'ultima generazione degli utilizzatori di computer pensa come un bambino intervistato da Turkle: "...io mi dico che probabilmente ci vorrà molto tempo prima di capire del tutto il gioco. Quindi gioco e basta". La sua prospettiva è sostanzialmente funzionalista e legato all'esperienza e al risultato.

Le resistenze all'innovazione che da sempre sono state espresse come uno scontro fra una condizione di purezza originaria e una forma di decadimento morale, sono state sempre in realtà dei conflitti fra apparati tecnologici. Anche le discipline interpretative, come quelle psicologiche, possono essere viste sotto questa prospettiva. Ne era consapevole, ad esempio, Freud stesso cui era chiaro che la tecnica del transfert e l'apparato del setting analitico costituivano l'anima stessa della psicanalisi, o perlomeno del trattamento psicanalitico.

Può esistere un umanismo assoluto?

Nonostante le osservazioni fino a qui espresse possano trovare un accordo di massima quasi unanime, le rappresentazioni sociali, culturali e soprattutto professionali risultano molto diverse. Nel gioco delle parti, sembra che, nonostante tutte le dichiarazioni d'intento, si voglia conservare una linea di demarcazione rigida fra una presunta cultura tecnica asettica e una di tipo umanistico puro. I due linguaggi sembrano non potersi coniugare. Al di là delle appartenenze per interesse, esistono delle fondate ragioni per conservare una tale separazione? In linea di principio nessuna tecnica si vuole pensata fine a se stessa, così come nessuna teoria dell'uomo si intende avulsa dall'evoluzione civile dell'umanità. Tuttavia è proprio l'oggetto su cui maggiormente si concentra l'attenzione dello studio a condizionare le priorità e la questione diventa dunque quale proposizione debba venire subordinata all'altra. Se diamo per scontato che la tecnica è fondamentale per lo sviluppo dell'umanità, non dovremo confermarlo ad ogni piè sospinto del nostro lavoro, perché in ogni proposizione tecnico scientifica l'oggetto e il fine non sarebbero altro che l'uomo stesso. Ma così ovviamente non è. La clonazione della pecora non viene fatta per l'uomo, ma per proseguire un discorso chiuso nell'ambito scientifico e in quello tecnico. Si tratta, in altri termini, di un sapere autoreferenziale.

Nello stesso modo, seppure sempre più filosofi, psicologi, pedagogisti e così via, usino i computer per scrivere le loro pagine ed insegnino ai loro allievi a farlo, la dimensione esistenziale della tecnica ben di rado è stata inserita nelle categorie di interpretazione sociale ed umana in genere. Ai tempi nostri, prima Husserl e poi Heiddeger, ad esempio, hanno cercato di farlo, ma si sono approcciati al mondo della tecnica come i primi antropologi usavano "il buon selvaggio": per dimostrare implicitamente la superiorità del proprio modello culturale, in grado infatti di trattare l'altro e la sua cultura come un oggetto spiegabile, un meccanismo fisico ingenuo. Eppure non può esistere un umanismo assoluto. Ed è per questo che, in un momento di forzato predominio della tecnica, si assiste ad un triste declino del sapere umanistico. Chi fa le spese di questo stato di fatto non è tanto il filosofo quanto l'uomo di tutti i giorni, la cui anima è scissa, separata.

Questione di velocità

Le questioni fino a qui espresse possono sembrare esclusivamente speculative, ma i loro effetti diretti sono immediatamente percepibili. La scrittura e la stampa hanno a loro tempo separato l'umanità in tre categorie: gli eruditi, gli "alfabetizzati" e gli analfabeti. Negli anni '60 molta dell'attenzione veniva riposta nello sforzo di vincere l'analfabetismo ampiamente diffuso nel nostro paese. Neppure oggi quell'avversario è stato del tutto sconfitto. Le cause dipendono anche da interessi economici e mancati investimenti individuali: non è sempre assodato che la padronanza culturale generale sia un vantaggio per tutti.

La società di domani - ma in buona parte già quella di oggi - sarà condizionata dalla padronanza o meno delle tecnologie digitali. Viviamo in un mondo a tre velocità: una prima è quella che cavalca in mondo delle information technologies, una fatta di persone che, volenti o nolenti, sono tenute ad utilizzarle e una costituita dalla popolazione inconsapevole o incapace. Parlare di tecnorealismo significa anche assumere una posizione assertiva a questo proposito. Pur senza demonizzare i ritardi, e neppure esaltare l'accelerazione tecnologica forzata, bisogna farsi carico del cambiamento e prendere una posizione politica, sociale, economica e culturale a tele proposito, laddove invece spesso si subisce fatalisticamente le trasformazioni. Laddove l'alternativa appare porsi fra la mancanza di strumenti di analisi e l'assunzione dell'innovazione tecnologica esasperata come un bene assoluto, il tecnorealismo vuol dire introdurre uno strumento di misura e cominciare a prendere le dimensioni degli eventi. I messianici ipertecnologici non vogliono misurare, essendo sempre rivolti al "massimo" di domani, non prima di aver buttato via e dimenticato il minus quam di ieri. I luddisti analogico-artigianali invece non misurano perché sostengono che è tutto fasullo, tutto sbagliato e che quindi non occorre misurare quello che non c'è e meno che mai dev'esserci (anche se lo fanno fra un pagamento con il bancomat e la spedizione di un fax magari dal tabacchino o alle poste). Dal punto di vista del tecnorealismo la questione delle velocità non è da poco: un realista non parla di due velocità o di due mondi, ma di più velocità e di più posizioni in cui ci si può porre. E' l'uomo, innanzitutto, a determinare i fini e gli obiettivi, senza ignorare la strada intrapresa dall'umanità, ma pure rifiutando di pensare che siano le scelte tecnologiche a determinare quelle individuali o politiche.

Le "vere" novità delle nuove tecnologie

Che cosa c'è di veramente nuovo nelle nuove tecnologie? La legge individuata ormai parecchi anni orsono dal capo della Intel, secondo la quale lo sviluppo dell'hardware sarebbe stato geometrico e regolare fino alla fine del millennio si è dimostrata vera fino a ieri. Oggi, invece di assistere ad un arresto della crescita, siamo spettatori del suo parossismo: lo sviluppo non è più parametrato agli obiettivi; si percorrono molteplici sentieri paralleli in contraddizione l'uno con l'altro; non fa tempo ad uscire un nuovo processore che vengono introdotte scelte tecnologiche che ne inficiano le scelte in ragione di un supponibile mancato proseguimento. Le anime tecnologiche stesse finiscono per essere in conflitto fra loro, così ormai il software si sviluppa in direzioni cui i costruttori di hardware non sono preparati e questi ultimi a loro volta vedono un futuro senza programmi, ma solo con macchine.

In mezzo a questa Babele ci sono gli uomini reali che si domandano a quali di queste novità incidano realmente nella loro vita e quante portino loro dei benefici reali. E' qui che la conoscenza tecnologica non ci aiuta più e, anzi, ci propina autentiche mistificazioni. l'uomo secondo i messianici: un microchip insonne e anoressico. l'esasperazione sociale del concetto di informazione spinto dal soffio prepotente delle tecnologie ha fatto sì che il concetto di cultura si sia sempre più avvicinato a quello di informazione arrivando persino ad una sovrapposizione delle due categorie. l'Internet intesa come sinonimo di paninformazione la via maestra della nuova ignoranza. La cultura non ha nulla a che vedere con l'informazione. E' un precipitato storico che arriva forse fino ad una radice genetica del nostro essere. La cultura non nasce dall'aggiornamento, ma dalla riflessione, dalla speculazione, da quel pensiero cui la società dell'informazione ci ha disabituati. La società dell'informazione ha finito per impedirci di riflettere e, così facendo, si è posta in antitesi alla vita culturale. Però, sia ben chiaro, non sono le tecnologie la causa di questo, ma solo le nostre scelte o non-scelte. Le tecnologie potrebbero solo favorirci nel nostro compito di creazione culturale. La memoria, che spesso le tecnologie tendono ad esportare fuori dalle nostre menti, con questi mezzi può essere potenziata al massimo e, per la prima volta nella storia, può essere oggetto di operazioni altrimenti impossibili. In questo modo le Nuove Tecnologie, a patto di essere pilotate dalla coscienza e dalla volontà speculativa umana, potrebbero guidarci a nuovi orizzonti culturali, se solo lo volessimo. Se solo non usassimo le tecnologie per fare le solite cose con risparmio di fatica e con il conseguente appiattimento della qualità della conoscenza e del genio.

Il manifesto dei tecnorealisti evoca il ruolo dei governi che, in queste decisioni, non dev'essere neutrale. Ma i governi sono spesso sottoposti alle pressioni di gruppi sociali i più disparati, fra cui le lobbies economiche e quelle tecnologiche. Chi assolutamente non deve tirarsi indietro sono gli esponenti della cultura umanistica. Questi però devono essere preparati non solo nei loro campi più tradizionali, ma anche in quelli propri del sapere tecnologico. Conoscere le tecnologie e il loro utilizzo non dev'essere una specializzazione, ma una competenza di fondo generalizzata. A questa si devono aprire, tanto le accademie che i circoli culturali o gli ambienti editoriali.

Una vita tecnologicamente compatibile

Alcuni esempi di questa discussione in ambito umanistico li troviamo nel settore dell'apprendimento, del lavoro, della socializzazione e della rappresentazione del sé e della corporeità.

Formazione multimediale e Distance Learning (o formazione a distanza) sono al momento alcuni dei fronti più attuali dell'educazione. Molta della ricerca che viene svolta in questo settore sta proponendo modelli e strumenti estremamente elaborati. Eppure, al di là di una reale proponibilità di queste soluzioni (che spesso sono troppo laboriose ed esigenti per le risorse economiche e tecnologiche della maggior parte degli enti utilizzatori) non si prendono in esame i veri obiettivi dei destinatari. Ed ecco che uno studio coordinato da Gallino e Boniolo ha evidenziato come la quasi totalità dei materiali didattici multimediali realizzati nel nostro paese, per quanto attenti agli elementi di seduzione scenico-tecnologica (gli "effetti speciali") ed estremamente oblativi in contenuto testuale, non si pongono la benché minima preoccupazione dello statuto pedagogico del loro lavoro.

Questo atteggiamento sottende spesso ad una pretesa supremazia dei tecnici sugli educatori: come dire che di pedagogisti, filosofi, psicologi non c'è più bisogno. Peccato che il computer non possa fornire la motivazione e che senza di questa nessuno sia spinto ad apprendere; sarebbe come se si pensasse che a scuola in cui gli alunni guidassero l'insegnante a realizzare il programma tramite domande mirate e precise richieste di insegnamento.

Con "i pratici" siamo in grado di fare tutto. E i pratici sono tanti! Non solo i tanti, tantissimi tecnici che spesso non sanno più quale mucca mungere e cercano di impadronirsi di tutto i mercati possibili con la scusa di qualche nuova tecnologia, ma anche i gestori, gli pseudo-economisti, gli amministratori delegati, i consulenti di direzione, gli esperti di business process engineering, i consulenti didattici... Dalla responsabilità di questa incuria sono complici primi proprio i committenti, il più delle volte indifferenti tanto alle problematiche professionali che alle reali necessità degli utilizzatori. Il ragionamento che questi signori spesso fanno suona più o meno così: "Con le nuove tecnologie portiamo buona formazione a tutti. Non costringiamo la gente a spostarsi e risparmiamo in termini di spostamenti, di strumenti, di docenti, di aule... Se la gente non vuole essere considerata obsolescente in pochi anni deve aggiornarsi. E' già tanto che noi si dia loro una mano a fare questo utilizzando il loro tempo libero. Non vorrete mica che ci si preoccupi anche di facilitarli in questo con costosi optional pedagogici?! Se le persone non imparano o se buona parte del paese regredisce sarà esclusivamente colpa loro". Invece la teledidattica che ha successo non fa spendere meno: costa di più perché o si investe per un beneficio aggiunto notevole o la si usa per risparmiare, ma così, non solo non conviene, ma si peggiorano le cose al punto che fra una teledidattica del risparmio e la rinuncia all'insegnamento di ogni tipo c'è da prediligere la seconda sotto tutti i punti di vista (di risparmio e di correttezza). In un modello di teledidattica efficiente, chi paga per il percorso didattico, per la parte pedagogica (quella che accompagna e guida i contenuti) dell'insegnamento? Chi paga i tutor e gli esperti? ...e a quel punto che cosa costa di meno?

Inoltre chi produce idee va sempre pagato, e bene, contrariamente a quello che sembra avvenire con la diffusione di Internet. Chi avrebbe poi interesse a scrivere se il frutto delle proprie fatiche non viene adeguatamente retribuito, se non vengono rispettati i diritti d'autore? Indubbiamente conviene di gran lunga intraprendere un lavoro manuale.

Un atteggiamento simile lo si riscontra a proposito del telelavoro che sta diventando in molti casi un ritorno al lavoro nero domestico (chi si ricorda quando le mamme, arricchivano i produttori di penne, montando biro per una sporca mancia? e ditemi, non era forse telelavoro senza computer, quello? pensate dunque che sia l'uso di un computer a cambiarne la sostanza? credete che i sindacati di oggi siano in grado di tutelare dei telelavoratori sommersi?). Questi gatti cinici dell'amministrazione sono soliti accompagnarsi con le volpi opportuniste della tecnica. Ma in qualcosa hanno in parte ragione. Se in territorio, se il paese reale, i cittadini, gli insegnanti, gli studenti non fossero tanti Pinocchio tutto questo non sarebbe per loro così facile da realizzare. Chiusi nel loro Aventino, i depositari della cultura invecchiano nei Vittoriali, nei loro archivi di ricordi aristocratici.

Ecco dunque il contraltare della menzogna e dell'occultamento in nome di un sapere potereƒ che non vuole misurarsi con la realtà e, in questo caso, con l'attualità e con il senso degli eventi.

Di tutte gli ambiti disciplinari uno dei più refrattari al cambiamento è quello dei professionisti dell'ermeneutica, dell'interpretazione: filosofi e avvocati sono alcuni di questi. Per loro le nuove tecnologie possono essere spiegate con altre categorie, ma non certo essere portatrici a loro volta di un proprio modello euristico. Per questo viene facile contrapporre all'agito di questi ultimi il proprio potere istituzionale legato a norme e categorie. Contrappongono spesso al crescente dominio dei tecnici l'indifferenza o la supponenza. l'uomo della società tecnologica sta vivendo, come abbiamo visto, una crisi del proprio statuto ontologico e uno spaesamento nei valori e nei comportamenti. Ricorderemo come Freud definisse la scoperta dell'inconscio la rivoluzione copernicana che ribaltava il concetto idealistico dell'io. l'oceano irrazionale che egli scopriva essere predominante nella persona se raffrontato all'isola della ragione rendeva irrisoria la filosofia hegelliana e il razionalismo in genere. Oggi l'informatica e le tecnologie della comunicazione stanno realizzando una simile rivoluzione. E' il filosofo Pierre Lèvy che ci fa notare come in questo mondo, sia i soggetti sociali, sia l'idea di intelligenza si stiano delocalizzando, rendendo le catene causali dei comportamenti e dell'evoluzione collettiva molto diversi da come siamo abituati a concepirle. E non è solo questione di globalizzazione (una categoria dietro alla quale si nasconde null'altro che uno strapotere del macro-capitalismo internazionale), quanto proprio dei destini dell'umanità e della costituzione stessa della nozione di soggetto. La navigazione per trovare le informazioni richiede molto più investimento e tempo che riceverle direttamente dal setting didattico tradizionale.

Non manchiamo di leggere articoli o libri che demonizzano l'uso del computer, descrivendone i pericoli e sfoggiando categorie psicanalitiche per spiegarne le patologie. Si sollevano i mostri della pedofilia, come se i mostri belgi o quelli nostrani avessero usato Internet per compiere le loro nefandezze, o quelli dei suicidi di massa dei seguaci di qualche culto extraterrestre new age, come se le comete si nascondessero nei computer usati per lavorare. Si dice che i videogames sono responsabili dell'aggressività giovanile, dimenticandosi dei film che vengono distribuiti al cinema e dei telefilm propinati obbligatoriamente alla televisione, come pure dei produttori e dei negozi di armi che puntano proprio sui giovani per gran parte del loro mercato e degli amministratori che si rifiutano di ostacolare un tale mercato. Si dice che l'io dei giovani che usano i computer viene indebolito e che Internet consenta ai ragazzi inadeguati di rifiutare la vita reale, relegandoli ad una sorta di psicosi border-line generata dalle nuove tecnologie.

Shelly Turkle, una psicologa sociale poco tradizionale, ha invece raccontato come dei mondi estremamente fecondi si nascondano negli ambienti virtuali dei giochi di simulazione, i MUD. ha mostrato quanto un certo uso dell'informatica stimolino la creatività e la fantasia permettendo a queste risorse di prendere corpo in produzioni concrete e in schemi di socializzazione nuovi. Viviamo in una società di sé multipli ed il senso dell'evoluzione sociale va sempre più in questa direzione. Che il soggetto diventi "debole" rispetto al fondamentalismo idealista è una nozione risaputa almeno da Baudrillard e la psicologia transpersonale che abbraccia il pensiero buddista, come pure le scuole comunicazionaliste, come quella di Palo Alto, o la tradizione sociologica Durkeimiana fino a Goffman hanno decretato la molteplicità dei sé come un passaggio inevitabile per spiegare l'uomo contemporaneo.

La Turkle ha provato che, invece di essere strumenti di perdizione, computer e Internet sono laboratori per sperimentare questa condizione postmoderna della psiche e della soggettività. Un ragazzo che ha costruito delle identità non patologiche in ambienti virtuali è più adeguato ad affrontare il cambiamento della vita contemporanea di un suo coetaneo diviso fra una scuola fondamentalista e un ambiente familiare dominato dalla televisione dei TG e delle telenovelas.

Appartenere a una comunità virtuali e sperimentare più maschere (la persona come la chiamava Jung rifacendosi al nome delle maschere teatrali greche) vuol dire anche affrancarsi dalle etichette sociali che ci vengono attribuite nell'ambiente sociale monolitico. Questo tipo di esperienza ci consente di svelare i meccanismi di attribuzione sociali che non ci permettono di essere diversi da come gli altri ci vogliono vedere. Superare i vincoli connessi alle condizioni economiche e all'appartenenza ad un determinato gruppo sociale. Non essere più giudicato perché povero o perché straniero. Uno degli effetti più interessanti della comunicazione virtuale è l'astrazione dalla denotazione corporea. In rete capita frequentemente che una persona anziana possa essere vista da dei giovani come coetanea; una donna può viversi nei panni di un uomo senza essere per questo stigmatizzata. Il principio di realtà freudiano richiede di essere rivisto alla luce di una molteplicità di realtà parimenti legittime. Di converso la realtà convenzionale non è più così unica e vera. Relativizzare la realtà convenzionale non può che fare bene e la critica anti-istiuzionalista di una certa corrente psichiatrica, quella dei Laing e degli Schatzman, avrebbe potuto trovare in questo tipo di esperienza una conferma delle proprie idee in merito. Il corpo virtuale e le identità virtuali dovrebbero portare la psicologia - e non solo - ad una revisione dei propri fondamenti. Turkle sottolinea che il principale risultato dell'utilizzo di simulazioni sempre più avanzate "inducono a riflettere che il mondo reale è "diventato" esso stesso un gioco di simulazione". Possono portare ad "esigere una maggiore trasparenza delle simulazioni; può esigere che i giochi a cui giochiamo (specie quelli che utilizziamo per prendere decisioni sulla vita reale) rendano più accessibili i modelli che li sottendono. Da qui si potrebbe partire per ricominciare a studiare la natura umana e l'identità. Gli psicologi potrebbero uscire dai ghetti della riduzione interpretativa a quelle poche e consuete categorie, aprendo le finestre delle proprie stanze per fare entrare la luce delle potenzialità invise della mente umana. Ripartire da quel Bateson che sosteneva che l'idea di mente non stava "dentro" l'uomo, ma ogni dove ci fosse una comunicazione, in ogni ambiente dove esistesse una differenza e un travaso, un passaggio di informazione da un essere vivente ad un altro. Ci si potrebbe lanciare in speculazioni ardite, come quelle legate alla natura della coscienza o all'indagine sulla morte. Per tutte queste sollecitazioni infatti la rete ha fornito spunti ed affinità per i ricercatori del neo-misticismo e per questo si può dire che esista, sotto più vesti più o meno esplicite, un neo-misticismo filo-tecnologico.

Purtroppo né gli psicologi, né gli umanisti in genere, implicati da queste problematiche si sentono tirati in causa e meno che mai accettano di mettere in discussione le proprie certezze, i propri assiomi e i dogmi di una fede che appare sempre più superstiziosa. Preferiscono negare e, così facendo, legittimare l'interpretazione materialistica della rivoluzione tecnologica, quella dei gatti e delle volpi. La vera rivoluzione didattica - per fare un esempio - consisterebbe nel sostituire i sussidi didattici con un apparato di fonti e strumenti on-line e consentire all'insegnante di concentrarsi esclusivamente nella funzione maieutica. Una tale soluzione sarebbe radicalmente osteggiata tanto dal sistema economico e dai potentati dell'editoria scolastica che dagli insegnanti poco inclini ad apprendere e a misurarsi con l'efficacia dell'insegnamento.

Quelli che restano, quelli che ci provano sono e rimangono ancora pochi, laddove un progetto di una tale portata richiederebbe un impegno ed un investimento di gran lunga superiore. Dovrebbe nascere una ricerca radicale, questa dovrebbe trovare posto nelle accademie e presso gli studi professionali. Si dovrebbe avere il coraggio di sperimentare soluzioni apparentemente ardite, di abbandonare sicurezze strette e sempre più deboli. Ma questo non accade e così il mondo sotto il riflettore delle Nuove Tecnologie continua a dividersi tra Luddisti e Messianici.

Noi chiudiamo difendendo invece quel tecnorealismo che, alla luce delle nostre considerazioni diventa Realismo radicale, vale a dire una critica della realtà fatta a partire non tanto dagli strumenti tecnologici né dalle categorie tradizionali ad esso applicate, ma dall'esperienza vissuta a partire dall'uso di questi strumenti all'interno degli ambienti e delle relazioni che questi consentono e in considerazione del loro impatto nella vita quotidiana delle donne, degli uomini, dei bambini, senza prevenzioni, preconcetti o predeterminazioni. Un mondo pieno di realtà, sostenuto da tecnologie pregne d'umanità.

 

Bibliografia:

Gargani, Il Pensiero senza fondamenti, Einaudi, Torino

Martignago, Pasteris, Romagnolo, Sesto Potere, Apogeo, Milano, 1997

Turkle, Vita allo specchio, Apogeo, Milano, 1997

Lèvy, l'intelligenza collettiva, Feltrinelli, Milano, 1996

Telèma, n.12, COMPUTER, SCUOLA E SAPERE, anno IV, Primavera 1998

Globalizzazione, ediz. Internazionale

Breker, Costello, Contro la globalizzazione, Feltrinelli, Milano, 1997

Morton Shatzman, Storia di Ruth, Feltrinelli

R. Laing, ...

<http://technorealism.org>

<http://www.apogeonline.com>

<http://fub.it/telema> o <http://www.fub.it/telema>

<http://members.tripod.com/~maister/formazione.html>