Psicologi e Tecnocultura
di Ennio Martignago
Uno strano, complesso, controverso e spesso difficile rapporto caratterizza
le relazioni fra psicologia ed informatica. Ricordo un mio vecchio capo
che scopertomi in conversazione con un addetto all'informatica sbottò
sbigottito un: <<Mai vista un'abbinata più stridente di questa!>>.
Già, perché, come faceva osservare a suo tempo Moscovici,
la nozione di senso comune per quanto concerne lo psicologo e la psicologia
non ha necessariamente a che fare con quello che il sapere in sé
descrive o analizza. L'idea dello psicologo come operatore della follia
che fa dei sentimenti, delle emozioni e dell'irrazionale la sua unica materia
è molto diffusa, prima di tutti fra gli psicologi stessi.
E pensare che proprio fra gli psicologi si incontrano i primi fra quelli
che dovettero interessarsi alla scienza del trattamento dell'informazione.
Fra i precursori ci sono ad esempio Herbert Simon con tutta la corrente
cognitivista. Conta già diversi anni la rivista italiana Sistemi
Intelligenti che si occupa proprio del rapporto fra comportamento
ed intelligenza e sistemi di modellizzazione informatica.
Spesso tuttavia sembra esistere uno scarto o un'idiosincrasia fra l'informatica
parlata e teorizzata dagli psicologi e quella praticata. Gli psicologi possono
dedicarsi con impegno ed abilità a certe pratiche informatiche, prime
fra tutte le procedure di programmazione e nello stesso tempo provare una
sorta di rifiuto per il mezzo.
Certo, il computer non è un mezzo caldo ed è difficile chiamaro
umano anche se con l'umano è non poco imparentato. Sussiste
una forma di competizione fra la mente umana e quella digitale. E come se
l'uomo avesse inventato e perfezionato uno strumento per supportare o sostituire
delle proprie attività o per fare quello che normalmente non potrebbe,
per poi domandarsi se è meglio lui o il suo strumento e se questo
potrebbe seppellirlo. Una sorta di perverso suicidio tecnologico.
Ma dagli anni di Simon e dei primi studi sull'intelligenza artificiale non
solo gli psicologi sono cambiati, ma l'informatica stessa prima di lui.
Due fenomeni sembrano caratterizzare questo cambiamento.
Innanzitutto il decentramento degli elaboratori.
L'hardware, le macchine, si sono affrancate dai limiti dei
grandi elaboratori con le loro logiche proprietarie a cui l'uomo doveva
soggiacere, scovando artifizi per governarli, per diventare degli strumenti
familiari che trovano posto sulle nostre scrivanie, nelle nostre borse e
perfino nelle nostre tasche. Già, perché la memoria stessa
sta passando da un supporto fisico locale ad uno remoto, lontano. L'ultimo
decentramento è infatti quello della memoria, dai dischi rigidi alle
reti, che ci permettono di registrare ed attingere informazioni da spazi
virtuali non presenti, raggiungibili in maniera del tutto simile ad una
telefonata.
Un altro decentramento è costituito dal passaggio dalla centralità
dell'hardware a quella del software. Come dire
che la "mente" sta avendo la meglio sul sistema nervoso. Siamo
sempre più liberi di adattare la logica del computer alla nostra;
di costruire degli ambienti virtuali, le scrivanie, grazie
alle quali ci è sempre più facile avere uno spazio
vicino al nostro modo di sentire, con in più la possibilità
di personalizzarlo adattandolo sempre più ai gusti personali.
Ancora più potente è il passaggio dall'informatica
tecnica a quella d'uso.
Sempre meno interesse suscitano i meccanismi logici dell'informatica e le
loro affinità o meno con i meccanismi logici umani, la cosiddetta
intelligenza artificiale quando aveva come scopo, non quello di rendere
le macchine sempre piu' duttili al nostro modo di operare, ma quando si
le si usava per dimostrare che un modello dell'artificiale poteva spiegare
il suo autore, il grave errore di presunzione della sostituzione del "territorio
con una "mappa". Si finisce in questo caso al massimo per approfondire
aspetti della costituzione linguistica del pensiero. Molto
di più interessa l'uomo e lo psicologo di oggi l'aspetto sociale
e relazionale dell'informatica.
Ecco quindi insorgere nuove questioni.
Come cambia il rapporto della persona con le proprie idee e il proprio dialogo
interno nel momento in cui essa conferisce loro una forma attraverso l'interazione
con dei programmi, con un ambiente virtuale, con contesti condivisi?
Che cosa caratterizza l'interazione delle persone in ambienti virtuali,
come le reti o le aziende virtuali, o i BBS?
Come la psicologia è passata dall'occuparsi di soggetti individuali
a nuove forme di "mente", da quella di gruppo a quella di sistema,
di quali strumenti teorici e concettuali deve attrezzarsi per rapportarsi
con quella che Lévy chiama intelligenza collettiva?
Questo autore infatti non fa che riprendere l'idea di mente come contesto
di comunicazione dato dalla danza fra processo e forma, fra differenziazione
e identità sviluppata negli anni settanta da Gregory Bateson. Solo
che per il Bateson di allora questi erano concetti puramente teorici, che
ponevano il problema di una difficile esemplificazione. Oggi questi nascono
come astrazioni di esperienze attuali, difficili da comprendere, ma certo
non irreali.
L'attenzione degli studiosi si va sempre più spostando dall'approccio
computazionale a quello interazionale, estetico e sociale, via via che si
è passati dall'informatica logica (centralità del cervello),
alla costruzione ipertestuale delle conoscenze (circolarità
e sistemica della mente e dei livelli di apprendimento) alle relazioni uomo-ambiente
operativo (dialettica dei sé multipli e interazionismo
simbolico), all'esplorazione del cyberspazio. Per la psicologia quest'ultima
è una storia ancora da scrivere, quella che Shelly Turkle chiama
concezione postmoderna nella psicologia e nell'informatica (con un marcato
e direi dovuto richiamo a Baudrillard) e che noi preferiamo chiamare condizione
nomade e provvisoria del soggetto. L'informatica e la telematica stanno
modificando il modo di sentire lo spazio e il tempo non solo dell'uomo che
ne fa uso, ma in generale di quello che partecipa di una società
sempre più mediatica, in cui i media diventano un'ambiente
che conferisce alla realtà le proprietà che lo caratterizzano:
non-stabilità, situazioni e conoscenze date dalla relazione fra i
mezzi che a loro volta possono cambiare, per cui a seconda dei mezzi che
descrivono lo stesso oggetto si hanno realtà diverse. L'osservatore
apprende a navigare fra realtà relative, in quanto definite dalla
variazione delle relazioni, in maniera sempre più rapida e automatica,
al punto da non far percepire il passaggio di realtà e il cambiamento
di parametri e linguaggi. Al di sopra di tutto sembra esserci
una coerenza superiore, la legge del simulacro forse, o quella del sembiante,
altrimenti.
Lo psicologo aduso alle categorie virtuali e ai paradossi della realtà
e delle sue convenzioni, lo psicanalista che si è già nutrito
dei difficili rapporti fra i principi virtuali di realtà e di piacere,
nonché dei linguaggi e delle leggi remote dell'inconscio, basate
su uno dei primi complessi linguaggi binari, quello pulsionale, con i suoi
loop (le coazioni a ripetere) e i metalivelli ed i metalinguaggi,
con le routines costituite da complessi, fissazioni ecc.., questo professionista
dovrebbe trovare nell'informatica un laboratorio ed un ambiente estremamente
consono e familiare.
Le cose non stanno sempre così.
Eccoci dunque a proporre a quanti ancora ne sono respinti un setting o un
laboratorio nuovi, nuovi spazi di indagine, pericolosi quanto fertili, proprio
come può essre considerato un puledro selvaggio a seconda di chi
dei due, cavallo o cavaliere, governa la situazione.
Il computing come strumento.
Il computing come media e come ambiente sociale.
Il computing come simulazione di processi
e di forme (non tanto per l'intelligenza artificiale, quanto come incarnazione
attiva dell'altro, di un sé fantasmatico, più estetico che
logico).
Ma soprattutto il computing come metafora vivente,
espressione del nostro pensiero estetico-narrativo, co-costruttore di storie
e di realtà.
Torino, Maggio 1996